Pubblicato su Oggi del 14.09.17

La denuncia di una violenza è un grido di aiuto, una richiesta di intervento immediato che a volte richiede più forza e più coraggio di quanto si immagini: bisogna trovare il modo di evitare che chi denuncia sia costretto ad attendere i tempi della giustizia italiana.
La mamma di Noemi Durini la forza e il coraggio di denunciare li aveva trovati, per ben due volte: forse, chissà, anche contro il volere della figlia. Noemi infatti si rendeva conto che – con la scusa dell’amore – il fidanzato le usava violenza, ma come molte ragazze e donne nella sua condizione aveva sempre perdonato, nella speranza di un cambiamento nel quale forse credeva soltanto lei. Rimane il fatto che la richiesta di aiuto di sua madre non è stata compresa, o forse è stata sottovalutata. Per ben due volte.

Il giovane ha confessato l’omicidio, quindi non dovrebbero esserci dubbi sulla sua responsabilità. Ma accanto alle sue, adesso bisogna accertare eventuali altre responsabilità a carico di chi non ha percepito la pericolosità del soggetto denunciato, di chi avrebbe potuto evitare l’ennesimo femminicidio. Il ministro della Giustizia ha disposto accertamenti sulla Procura per i minorenni di Lecce, allo scopo di appurare possibili colpevoli inerzie o trascuratezze in relazione alle denunce. E lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato di voler approfondire la questione. Sono molto interessata a conoscere gli esiti, spero che si possa spiegare come mai la giustizia, pur chiamata a intervenire, non sia ancora una volta riuscita a impedire il peggio.

Anni fa, le statistiche evidenziavano che le donne non denunciano le violenze subite, specie quando avvengono in casa; e proprio con Doppia Difesa, a partire del lontano 2007, abbiamo dato vita a innumerevoli campagne per incoraggiarle a venire allo scoperto e a rompere il silenzio, senza paura o vergogna. È inconcepibile che, anche quando riescono a reagire, le vittime rimangano inascoltate. Sono consapevole della mole di lavoro che ingorga gli uffici giudiziari, ma perché non provare almeno a ipotizzare una sorta di corsia preferenziale alle emergenze rappresentate da casi come quello di Noemi? Perché non formare adeguatamente il personale giudiziario, in modo che le donne non si imbattano in interlocutori che “ridimensionano” le violenze e sottovalutano le richieste di aiuto? Capisco che si corre il rischio di cadere nell’eccesso opposto, ma c’è in ballo la vita delle donne ed è indispensabile che la selezione sia affidata a chi ha la formazione e l’esperienza necessarie per condurla nel modo più attendibile e rigoroso.

Un’ultima riflessione: chi commette reati prima di compiere 18 anni ha diritto a essere processato da un giudice specializzato, secondo un rito che intende salvaguardare le condizioni psicologiche e le esigenze educative del minore. Per questo, nel cosiddetto processo minorile sono previsti benefici e deroghe rispetto alle regole contenute nel codice di procedura penale, come la declaratoria di improcedibilità per irrilevanza del fatto (da poco introdotta, in un certo modo, anche nel rito ordinario) e l’estinzione del reato conseguente alla messa alla prova; inoltre, le pene sono più lievi. Da più parti sento dire che a 16 anni i giovani sono pronti per votare: credo che allora siano pronti anche per essere giudicati dal Tribunale ordinario.

Giulia Bongiorno

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