Pubblicato su Oggi n. 5 del 4 febbraio 2021.

 

In questi giorni si è parlato di una pratica che purtroppo riguarda ancora milioni di donne in tutto il mondo, i cosiddetti test di verginità (o “delle due dita”) in uso non solo in Paesi culturalmente molto diversi dal nostro – come, tra gli altri, Afghanistan, Egitto, India, Indonesia, Iran, Turchia e Marocco –, ma anche, stando a un dossier curato dalla rivista “marie claire” nel 2019, alcuni Paesi occidentali dove pure le migrazioni di molte comunità sono avvenute in epoca di globalizzazione: Canada, Spagna, Svezia, Olanda e Belgio.
In particolare, in Pakistan questi test venivano usati per comprovare, oltre che la verginità (e dunque l’“onorabilità”) di una donna, anche l’attendibilità di chi avesse denunciato uno stupro. La solidità scientifica è a dir poco discutibile: il medico non si preoccupava delle eventuali lesioni riportate, ma con un’esplorazione vaginale pretendeva di poter accertare se la donna avesse davvero subìto uno stupro o se in realtà, semplicemente, non fosse più vergine. Al di là dell’illogicità della pretesa, colpisce la tendenza a dubitare della sincerità della vittima, invece di preoccuparsi del reo e della violenza denunciata; un atteggiamento che – fatte le debite proporzioni – si riscontra anche nella società occidentale e che dà la misura di quanto sia ancora lunga la strada che ci separa dalla parità tra i sessi.
C’è una buona notizia: da qualche giorno i test sono diventati illegali nella regione pakistana del Punjab. Ayesha Malik, giudice della Corte suprema di Lahore, si è richiamata alle linee guida emanate già da tempo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che negano loro qualsiasi “validità scientifica” e li qualificano come “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”: il giudice Malik ha definito i test “umilianti”, aggiungendo che non hanno “alcuna validità legale”, né base medica, e che sono lesivi della dignità personale della donna. Speriamo che questa tendenza si diffonda quanto prima anche negli altri Paesi che continuano a praticarli in quantità.
Il dossier curato dalla rivista “marie claire” riporta per esempio che in Marocco, nel periodo dei matrimoni (giugno-agosto), i ginecologi rilascerebbero fino a 10 certificati di verginità al giorno: a richiedere il certificato possono essere il futuro marito o i suoi parenti, ma anche i familiari della promessa sposa; spesso sono proprio le madri a imporlo alle figlie, per “proteggerle da possibili accuse di un futuro marito”. In Indonesia, invece, a richiedere il test della verginità sarebbero l’esercito e la polizia nazionale: servirebbe a comprovare la castità delle donne che vogliono entrare nelle forze armate. Secondo l’indagine “marie claire” USA, anche negli Stati Uniti sarebbero tante le madri che costringono le figlie a sottoporsi al test per proteggerne l’onore.
In un sondaggio del 2016 realizzato dalle facoltà di Medicina del Baylor College di Houston e della Cornell University di New York, su un campione di 300 ginecologi il 10% ha ammesso di avere almeno una paziente che aveva richiesto il test di verginità per la figlia e tra questi il 34% ha dichiarato di averlo effettivamente eseguito.
La sessualità è una sfera che riguarda strettamente l’individuo, uomo o donna, e non dovrebbe avere a che fare con la rispettabilità e l’onore. Ma soprattutto, è significativo che la preoccupazione delle madri riguardi la verginità delle figlie femmine e non quella dei figli maschi: mentre alle ragazze si raccomanda di conservarsi intatte, i ragazzi sono incoraggiati a fare esperienza. Allo stesso modo, spesso di un uomo focoso si apprezza la “virilità”, mentre una donna focosa è guardata con disapprovazione o, nella migliore delle ipotesi, con malizia. Per quanto tempo ancora continueremo a portarci dietro questi stereotipi?

Giulia Bongiorno

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