
Pubblicato su Oggi n. 47 del 26 novembre 2020.
È dello scorso ottobre un’importante sentenza (Cassazione penale, SS. UU., sent. 01.10.2020 n. 27362) pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che rappresentano la massima espressione della giurisprudenza italiana. Essa ha uniformato l’orientamento, prima contrapposto, della giurisprudenza in merito al reato di violenza sessuale commessa mediante abuso di autorità (art. 609-bis, primo comma, del codice penale).
Secondo alcuni, infatti, questa modalità ricorreva solo nel caso in cui chi commetteva la violenza avesse una qualifica formale pubblica, come quella di pubblico ufficiale. (Per esempio, un ufficiale comandante un battaglione dell’esercito condannato, in un caso, per tale reato.) Secondo altri, invece, l’abuso di autorità era l’abuso di ogni potere di supremazia, anche privato, tramite il quale si commette violenza sessuale.
La necessità di uniformare la due diverse interpretazioni è nata dal caso di un insegnante di inglese che aveva costretto due alunne minori di quattordici anni, alle quali impartiva lezioni private, a subire atti sessuali, come carezze sulle cosce, baci anche con la lingua, palpeggiamenti. Stando al primo orientamento, questi comportamenti non avrebbero integrato una violenza sessuale commessa con abuso di autorità: l’uomo non rivestiva una posizione di autorità formale e pubblicistica; trattandosi di un insegnante privato, avrebbe “tutt’al più” commesso un reato di atti sessuali con minorenne (ex art. 609-quater c.p.).
Le Sezioni Unite hanno sancito un orientamento definitivo, chiarendo innanzitutto un concetto fondamentale: l’abuso di autorità è quello che determina una vera e propria sopraffazione della volontà della vittima (e non la semplice induzione a compiere o subire atti sessuali). La vittima si ritrova cioè in una condizione di sudditanza materiale o psicologica, che tuttavia non si identifica in una patologia. Poi hanno chiarito che l’abuso di autorità si distingue, seppur in maniera sottile, anche dalla minaccia con cui si costringe la vittima a subire la violenza: mentre la minaccia intimidisce direttamente la vittima, costretta a compiere o subire l’atto sessuale, la costrizione che segue all’abuso di autorità si riferisce alla relazione di soggezione che intercorre tra l’autore e la vittima del reato. In ragione del ruolo autoritativo del primo, si crea una situazione per cui alla seconda non restano alternative di scelta rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale. Dunque, viene strumentalizzata una posizione di supremazia.
Proprio perché l’autorità riguarda la relazione, il rapporto tra più persone, ai fini della configurabilità del reato non è necessario – concludono le Sezioni Unite – che l’autorità abbia natura esclusivamente formale e pubblicistica.
Questo significa che nella violenza sessuale commessa con abuso di autorità rientrano anche condotte violente che si consumano nell’ambito di rapporti di natura privatistica o di mero fatto: si pensi al caso degli abusi nell’ambito dei rapporti di lavoro dipendente (anche irregolare), alle situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale e all’interno di determinati gruppi di individui, comunità o associazioni.
Con questa sentenza, i supremi giudici consentono di estendere la tutela delle vittime; naturalmente però bisogna dimostrare non soltanto l’esistenza del rapporto di autorità tra autore del reato e vittima (diverso dalla semplice costrizione fisica e dalle ipotesi di minaccia e induzione), ma anche che di tale posizione di supremazia si sia abusato allo scopo di costringere la vittima a compiere o subire un atto sessuale al quale essa non avrebbe in altro contesto consentito.
Giulia Bongiorno