
Pubblicato su Oggi n.7 del 20 febbraio 2020.
Ho letto sui giornali che, nel giro di una settimana o poco più, in Italia sono state uccise sei donne. Una di loro sarebbe stata letteralmente picchiata a morte dal marito, per tre giorni. Ma com’è possibile che continuino a morire così tante donne, com’è possibile tutta questa rabbia, tutta questa violenza? La parola femminicidio ha un riscontro nella legge?
Agata
Il termine femminicidio, pur non avendo valenza giuridica, viene impiegato comunemente per indicare appunto le uccisioni di donne commesse (spesso dopo altre violenze già perpetrate) per mano di partner attuali o ex.
Purtroppo, ogni anno le statistiche “fotografano” una realtà davvero tragica. Inoltre, secondo i dati forniti dal Dossier Viminale di ferragosto 2019, benché nel periodo da agosto 2018 a luglio 2019 vi sia stata una generica diminuzione degli omicidi rispetto all’anno precedente, la percentuale di donne uccise sul totale degli omicidi commessi in ambito familiare / affettivo è pari al 63,4 per cento. Dunque, gli omicidi diminuiscono ma, in percentuale, i femminicidi aumentano.
In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, il Procuratore generale della Corte di Cassazione ha sottolineato come nel “contesto positivo” del calo degli omicidi di uomini “le violenze in danno di donne e di minori diminuiscono in numero, ma restano una emergenza nazionale”. L’emergenza non si è certo configurata oggi, e le ragioni risiedono nel contesto socio-culturale: secoli di legislazione discriminatoria contro le donne (ricordiamo, tra l’altro, l’autorità maritale cui erano sottoposte, il matrimonio riparatore, il delitto d’onore) hanno contribuito a radicare rigidi stereotipi sul ruolo della donna, rappresentata come essere debole, dipendente, inferiore all’uomo. Dunque, ogni qual volta la donna decide di far valere la sua volontà in contrasto con quella di un partner, effettivo o potenziale (anche quella di lasciarlo o di non ricambiare un sentimento) viene ritenuta punibile con la violenza, e finanche con la morte. La situazione classica è quella in cui l’uomo non accetta che la donna voglia porre fine a una relazione: in questi casi si parla di “moventi passionali” (e purtroppo, spesso, con l’intento di giustificare o sminuire), ma all’origine della violenza non c’è la passione, c’è la discriminazione.
Proprio per via dell’emergenza nazionale di cui ha parlato il Procuratore, ed è un bene che sia stata sottolineata, mi sono battuta per la legge Codice Rosso: con l’approvazione di Codice Rosso si è acceso un faro sulle denunce sporte dalle donne vittime di violenza di genere e domestica; queste denunce non devono essere sottovalutate, necessitano anzi di interventi immediati per verificare – anche attraverso l’ascolto diretto entro tre giorni – se sussistano le condizioni per adottare gli adeguati provvedimenti di protezione.
Quando sento che qualcuno vorrebbe intervenire su questa legge, e in particolare sull’accelerazione impressa alla fase delle indagini, dico che – ove mai lo si facesse – significherebbe depotenziare una normativa il cui fine principale è appunto garantire la tempestività degli interventi giudiziari: in un contesto riconosciuto, per l’appunto, come “emergenza” la tempestività non è qualcosa da prendere alla leggera.
Giulia Bongiorno