Pubblicato su Oggi del 08.04.18

Purtroppo succede spesso, dinanzi a una violenza e in particolare a uno stupro, di sentir dire che la donna – in un modo o nell’altro – “se l’è voluta”. Ci sono mille pretesti per sostenere questa tesi, prima fra tutti l’abbigliamento: sono in molti a cogliere un pretestuoso collegamento e a dire che gli abiti vistosi – scollati, corti, aderenti –, che esaltano le forme del corpo femminile, dovrebbero essere evitati; oppure che poi non ci si dovrebbe stupire di essere molestate, aggredite o stuprate.
L’abbigliamento femminile è stato inoltre oggetto di storiche pronunce giurisprudenziali. Nel 1998 (Cass., Sez. III, 6 novembre 1998, n. 1636), riguardo a una vittima che indossava un paio di jeans, fu sostenuto dalla Cassazione che – poiché, per comune esperienza, è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans senza la fattiva collaborazione di chi li indossa – la donna aggredita sarebbe stata collaborativa, e quindi consenziente. Per fortuna, questo orientamento è stato nel tempo superato dalla stessa Corte, che ad esempio nel 2008 (Cass., sez. III, 10 giugno 2008, n. 30403) ha ritenuto il fatto che una ragazza indossasse pantaloni tipo jeans per nulla ostativo al toccamento interno di parti intime, essendo ben possibile farlo penetrando con la mano dentro l’indumento. I jeans (e simili) non sono infatti cinture di castità.
In questo contesto, voglio segnalare un’iniziativa interessante, intrapresa proprio nel tentativo di superare certi pregiudizi: a Milano – in collaborazione con la Casa dei diritti e con la Rete Antiviolenza cittadina – è stata allestita una mostra di abiti indossati da vittime di violenza. Gli organizzatori si sono ispirati a un’iniziativa analoga, dal titolo What Were You Wearing? (“Cosa indossavi?”), curata da Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas.
Gli abiti in mostra non avevano nulla di provocante: tra gli altri c’erano jeans e maglietta, una gonna al ginocchio, un maglione, un pigiama di flanella. Il messaggio che si è voluto trasmettere è chiaro: la violenza non è mai determinata da quello che una donna decide di indossare, sebbene sia ricorrente la convinzione contraria; una convinzione che finisce, a ben vedere, per spostare la colpa dai carnefici alle vittime.
A volte sembra troppo difficile ammettere quello che secondo me è ovvio, cioè che il responsabile della violenza è solo chi la commette: più facile insinuare che la donna provoca o collabora, e che una minigonna, una maglietta scollata o un paio di pantaloni attillati rappresentano un segnale di “disponibilità”.

Giulia Bongiorno

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