
Nella redazione di questo caso, i nomi utilizzati sono di fantasia.
Sandra è una donna sui cinquanta, sposata con Marco da più di 25 anni. Hanno 9 figli, di età comprese fra i 24 del maggiore e i 7 dell’ultimogenita. S. fa un lavoro tosto, impegnativo, ritmi serrati, responsabilità. S. lavora in Polizia.
Anche M. lavora, o sarebbe meglio dire lavoricchia. Si arrabatta; si impegna poco e male in lavori e lavoretti che qualche amico o conoscente trova per lui spendendo una buona parola in suo favore. Poi li perde. Poi qualche altro lavoretto. Altro abbandono, rinuncia o licenziamento, in una ruota che pare infinita. C’è un’altra ruota che pare infinita nella vita di M e S. Sono le botte che M. non risparmia mai alla moglie, poi le riappacificazioni condìte di promesse di cambiamento, mea culpa, capi cosparsi di cenere, poi una nuova fase di accrescimento della tensione e poi, altre botte.
M. beve, fa uso di sostanze stupefacenti, cocaina in particolare. Lo fa da molti anni.
M. picchia, umilia, denigra, vessa S. Anche questo da molti anni.
Non è sempre stato così però: all’inizio della loro storia M. era amorevole, premuroso, rassicurante, protettivo. Di quel M., S. si era innamorata. Credeva nella possibilità di fare insieme una famiglia, di cercare magari un riscatto, in una vita che con lei non era stata fin lì avara di delusioni e dolori (ma per gli intenti di oggi, potremmo dire che questa è un’altra storia).
Di quel M. oggi è rimasto solo un vago ricordo, sbiadito e appannato, perso fra le lacrime e non raramente il sangue che i pugni di M. sono riusciti a far scorrere copiosi dal viso di S.
Capita un giorno che S. dica basta, dopo l’ennesimo episodio, dove lui la minaccia di morte, dove compare un’arma, dove il terrore negli occhi di uno dei suoi figli suona per S come il trillo di una sveglia ad altissimo volume, direttamente posata sulle orecchie, nel cuore della notte.
Capita che per S. la misura sia colma, e vedremo insieme nel corso della psicoterapia quanto non sia tanto utile capire perché in quel momento e non prima (perché allora non dopo, in un maldestro tentativo di capire le cause, in un’ottica giudicante). È importante per S. aver detto basta.
Capita che nel marzo del 2016 S si rivolga a Doppia Difesa.
Da lì ci siamo mossi, insieme, coordinati, legali, psicologi e colleghi che si occupano del primo contatto, per rispondere celermente e competentemente alla coraggiosa richiesta di aiuto di S.
Attualmente S. segue un percorso di psicoterapia con cadenza bimensile da circa 9 mesi.
L’obiettivo di questo lavoro è quello di condividere l’esperienza, traumatica, che S. ha vissuto: ascoltare la sua vicenda aiutandola a prendere contatto con i significati più profondi che la storia di violenza, di abuso, assume per lei. Aiutarla a riconoscere le proprie emozioni (perdita di senso, annientamento,). Questo obiettivo è perseguibile offrendole uno spazio dove poter esprimere domande come “perché proprio a me?”, “è colpa mia?”, “sono in grado di intraprendere e portare a termine un percorso di denuncia?” al fine di riconoscere di essere stata vittima di una violenza senza che l’identificarsi esclusivamente con il ruolo di vittima la costringa in una dimensione di passività che ad esempio sarebbe limitante in ragione delle responsabilità genitoriali (9 figli – sei minori!) che improvvisamente (e per fortuna verrebbe voglia di dire) ricadono tutte su di lei.
Uno degli elementi che hanno ancorato S. nella dinamica di violenza con M. sono stati sicuramente i figli. S. ha temuto per lungo tempo (in effetti ancora teme) che la separazione dal partner potesse significare per i figli la perdita del padre e che ciò potesse avere delle conseguenze catastrofiche. S. ha temuto che una separazione potesse recare dei gravi danni nei figli – tossicodipendenza, abbandono scolastico. Vi era in lei anche la paura che l’assenza di ciò che chiamiamo “una figura paterna” nella vita familiare quotidiana potesse determinare un’impossibilità di porre dei limiti, soprattutto ai figli adolescenti. In effetti è proprio su tale questione che il lavoro psicoterapeutico si sta muovendo in questa fase. Un lavoro atto a sostenere la fatica di riorganizzare o sarebbe meglio organizzare per la prima volta, degli assetti familiari utili: porre come fulcro di un buon funzionamento il senso del limite e del rispetto delle regole di convivenza, problema così evidente in una famiglia tanto numerosa. Riorganizzare assetti dicevo, proprio a partire dalla consapevolezza e dall’analisi degli assetti precedenti, in cui l’unico codice era quella della violenza, dove le divergenze o i conflitti venivano tutti sedati con le botte.
Per certi versi il lavoro con S. attualmente ruota attorno al vivere una libertà mai sperimentata prima, provando a non perdere la bussola.