
Pubblicato su Oggi del 17.12.17
Ogni anno, a partire dal 1927, la rivista americana “Time” assegna un riconoscimento a un personaggio che, nell’arco dei precedenti dodici mesi, si è distinto sul piano internazionale.
Per questo dicembre 2017 si è deciso di “incoronare” tutte le donne che – vittime in vario modo di violenze e abusi – hanno deciso di parlare svelando il sistema di relazione subalterna tra donna e uomo che impera nascosto sui luoghi di lavoro e che consente spessissimo a lui di dare a lei occasioni di carriera, o anche di mero guadagno, solo in cambio di forzati favori sessuali. A queste donne “Time” ha dedicato una copertina celebrando l’enorme ondata di ribellione etichettata con l’hasthag #MeToo.
In Italia, invece, non solo non ci sono state “celebrazioni” ma in molti hanno avanzato dubbi e sospetti sulla veridicità delle storie di violenza venute a galla; è inoltre emerso un atteggiamento ambiguo, come se nel nostro Paese la condanna di certe condotte fosse collegata non tanto alla violenza in sé, quanto piuttosto a chi – di volta in volta – l’ha commessa.
Mi spiego meglio: se il violento è un barbone o un profugo, tutti sono pronti a condannare, immediatamente; ma se il caso riguarda un capoufficio spesso si pensa che, forse, la donna dipendente potrebbe averlo provocato; e se infine si tratta di un potente – pensiamo per esempio al produttore Harvey Weinstein e all’attrice italiana Asia Argento – si conclude semplicisticamente “prima ci sta e poi si lamenta”. Mi sembra insomma che la violenza venga percepita in modo diverso a seconda che sia stata perpetrata in uno scantinato o in un hotel di lusso.
Naturalmente le certezze sulle responsabilità si avranno solo con le sentenze, ma non si può negare che gran parte dei commenti – specie sui casi di giovani attrici vittime – tendevano più a screditare per l’ennesima volta le donne che a tutelare il presunto colpevole !
Certi discorsi sulle donne che se la vanno a cercare, che “prima ci stanno e poi si lamentano”, che in fondo godono a essere prese con la forza mi ricordano tanto quella scena del Gattopardo in cui Tancredi, raccontando l’incursione dei garibaldini in un monastero di clausura, descrive il terrore delle monache di essere stuprate dai soldati come un desiderio, nemmeno troppo velato, di essere possedute dagli aitanti giovanotti. “Erano pronte e disposte al… martirio. Guaivano come cagne,” dice Tancredi. E, dopo aver spiegato che lui e i suoi compagni volevano soltanto mettersi di vedetta sul terrazzo del monastero, conclude con un beffardo: “E le lasciammo lì, con la bocca asciutta”.
Mentre Angelica, la giovane fidanzata, ride eccitata – “Lo scherzo le sembrava delizioso” – ed è divertita persino quando lei stessa è oggetto di una battuta a doppio senso, è la cugina Concetta a riprendere Tancredi, offesa e turbata.
Tre sono le considerazioni che questa scena mi ispira: la prima è che, di tutti i commensali riuniti intorno alla tavola del principe di Salina, sia una donna – bella e giovane – a ridere del terrore delle vecchie monache; la seconda è che la foga del racconto e l’eccitazione prodotta dal divertimento di Angelica, in un istante trasformano “quel giovanotto ammodo che in realtà era, in un soldataccio brutale”; il terzo è che sia un’altra donna a rimettere in riga Tancredi, richiamandolo ai suoi doveri di gentiluomo. Di persona perbene, aggiungeremmo noi.
Giulia Bongiorno