Pubblicato su Oggi n.5 del 7 febbraio 2019.

Dopo quanto tempo trascorso insieme sotto lo stesso tetto si può parlare di “convivenza” – dunque, di un legame che, al pari del matrimonio, abbia i connotati della progettualità, della solidarietà e dell’assistenza – e non di semplice, temporanea coabitazione?
È una domanda importante perché, in caso di maltrattamenti all’interno di una coppia, un legame matrimoniale o una convivenza more uxorio sono rilevanti nel configurare il reato. La Cassazione si è di recente pronunciata (Sentenza n. 56673 depositata il 17.12.2018) su un caso di violenze consumate nell’ambito di un rapporto di convivenza, ravvisando la sussistenza del reato di maltrattamenti (di cui all’art. 572 c.p.) anche se la convivenza era durata soltanto 29 giorni. Ventinove giorni in cui l’uomo aveva sistematicamente tenuto condotte prevaricatrici, manesche, ingiuriose e sprezzanti, in seguito alle quali la compagna – che per lui aveva lasciato il marito e la propria città di origine – si trovava in uno stato di profonda prostrazione.
L’uomo – che in precedenza l’aveva assistita durante la degenza successiva a un intervento chirurgico – ha contestato la sentenza che lo aveva condannato a tre anni di reclusione per maltrattamenti e ha proposto ricorso in Cassazione. Ha affermato innanzitutto che lui e la donna non formavano una coppia di fatto e che tra loro c’era un semplice legame sentimentale; in secondo luogo, che i rapporti sessuali intrattenuti nel corso della brevissima coabitazione erano stati consenzienti – dunque, non ci sarebbe stata quella sequenza (la cosiddetta “abitualità”) di atti prevaricatori causa di sofferenze fisiche e morali richiesta dall’art. 572 c.p.
Nel respingere il ricorso, la Corte di Cassazione ha fatto alcune precisazioni decisive per la tutela penale di chi è vittima di maltrattamenti all’interno di un rapporto di convivenza. Al di là della coabitazione, e anche se breve, la Corte ha ritenuto infatti che il carattere stabile del rapporto di convivenza – caratterizzato da una progettualità di vita comune – si desumesse, in particolare, dalla dichiarazione anagrafica resa dalla coppia all’ufficio del Comune di residenza dell’uomo (presso il quale la donna si era trasferita). Si tratta, più precisamente, della dichiarazione rilasciata ai sensi dell’art. 1, comma 37, della Legge n. 76/2016; legge che ha introdotto la disciplina delle convivenze, precisando che si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. Questa dichiarazione, rimessa all’iniziativa della coppia, rappresenta – specifica la Cassazione – il meccanismo costitutivo della convivenza giuridicamente rilevante; la conseguente certificazione anagrafica è sufficiente a dimostrare, a ogni effetto di legge, la sussistenza del rapporto di convivenza: non sono dunque necessari ulteriori accertamenti in materia ed è irrilevante qualunque ulteriore indagine sulla natura dei rapporti che legano le persone dichiaranti.
In merito poi all’altra censura mossa alla sentenza di condanna (mancanza di abitualità della condotta), i supremi giudici ribadiscono che elemento rilevante ai fini del reato è il nesso di abitualità che collega gli atti vessatori, legati dall’intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica e morale della vittima; nesso che – alla luce della reiterazione delle condotte lesive – non viene meno anche se la vittima ha episodicamente intrattenuto con l’imputato rapporti sessuali consenzienti. Tali rapporti costituiscono semmai l’esplicitazione del rapporto di convivenza all’interno del quale sono stati commessi gli atti violenti e denigratori.

Giulia Bongiorno

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