
Pubblicato su Oggi n. 39 del 10 ottobre 2020.
Ho letto una terribile notizia sull’uccisione di alcune giovani iraniane, giustificata – se ho ben capito – dal delitto d’onore; e gli assassini non hanno esitato a confessare, per garantirsi uno sconto di pena. Ma com’è possibile?
Luigia
Tra fine maggio e metà giugno, in Iran sono stati consumati ben tre delitti d’onore. Secondo il codice penale iraniano, chi uccide un congiunto viene punito meno gravemente se la vittima è stata uccisa per avere arrecato vergogna o disonore alla famiglia. Dunque, anziché con la pena di morte – come per altri casi di omicidio –, con una detenzione da tre a dieci anni e il pagamento di un indennizzo.
La prima vittima di questa fine primavera è stata Romina Ashrafi: Romina, 13 anni, era scappata con un giovane, con il quale da tempo aveva una relazione che aveva gettato il disonore sulla famiglia. Secondo la stampa, il padre si opponeva al matrimonio non a causa dell’età (in Iran le donne si possono sposare dai 13 anni), ma perché il giovane era di religione sunnita e non, come loro, sciita. Dopo la fuga e la denuncia per rapimento, Romina è stata ritrovata e riportata alla famiglia, nonostante avesse riferito alla polizia che il padre era violento e pericoloso per la sua incolumità. Il giorno dopo, il padre l’ha uccisa: dopo aver invano tentato di strangolarla nel sonno, l’ha decapitata con una falce. Secondo i giornali locali, l’uomo è andato a costituirsi con l’arma del delitto tra le mani.
Poi è stata la volta di Reyhaneh Ameri, 22 anni, anche lei uccisa dal padre con un’ascia: avevano litigato perché lei era rincasata troppo tardi. Infine, Fatemeh Barihi, 19 anni, decapitata dal marito-cugino con il quale era stata costretta a sposarsi: secondo i giornali locali, la ragazza era fuggita e lo aveva tradito.
Quando simili notizie arrivano da paesi stranieri, siamo subito portati pensare che certe cose accadano soltanto “lontano”, all’interno di culture diversissime dalla nostra. Eppure, in Italia, l’omicidio “a causa di onore” – per il quale si era puniti in maniera attenuata con la reclusione da tre a sette anni – è stato abrogato soltanto nel 1981, con la legge n. 442. Dunque, da nemmeno quarant’anni è stato riconosciuto che un omicidio commesso col pretesto di salvaguardare il proprio onore o di ricostituire l’unità familiare non può trovare approvazione nella coscienza etica collettiva; e una sentenza – risalente appena al 1996 – ha giustamente affermato che la gelosia e la vendetta, dettate da un malinteso senso dell’orgoglio ferito, costituiscono passioni morali riprovevoli insuscettibili di valutazione positiva.
Io ho sempre sostenuto che, sulla base della fondamentale libertà di autodeterminazione che spetta a donne e uomini, chi commetta un omicidio per spirito punitivo nei confronti della vittima, considerandola come propria appartenenza e non ammettendone insubordinazioni, debba essere punito con una pena più elevata.
Giulia Bongiorno