Pubblicato su Oggi n.3 del 24 gennaio 2019.

Solo nella giornata del 23 dicembre tre donne sono state uccise da mariti, compagni, conviventi o ex e il 2019 è iniziato con una donna trascinata al guinzaglio per le strade di Napoli: ci auguriamo vivamente che la situazione migliori nel corso dell’anno.
Una riflessione a parte merita la polemica divampata nei giorni scorsi a proposito della finale di Supercoppa italiana che il 16 gennaio ha visto contrapposte Juventus e Milan e che si è disputata a Gedda (Arabia Saudita), presso il King Abdullah Sports City Stadium. Lo scorso 2 gennaio era stato infatti diffuso dalla Lega Serie A il relativo comunicato stampa e i tifosi venivano invitati a scegliere la categoria “desiderata” di biglietto: settori “singles” (riservati agli uomini) o settori “families” (per uomini e donne)? Nella mappa dello stadio, dove i settori erano rappresentati in diversi colori, si notava che la parte di stadio destinata ai settori families era più piccola, più in alto e più lontana dal terreno di gioco.
L’apertura degli stadi alle donne arabe (che risale appena all’anno scorso) rappresenta un passo avanti verso la cancellazione di limiti e divieti inconcepibili per noi occidentali. In Arabia Saudita le donne vivono da sempre in una condizione di fortissima sottomissione, secondo il sistema comunemente definito “del guardiano”: considerate inferiori, non davvero in grado di agire da sole, necessitano dell’autorizzazione di un uomo – il marito, il padre, un fratello, un cugino o anche un figlio – per sposarsi, lavorare, fare un viaggio all’estero ecc. Non sono libere nemmeno di scegliere che cosa indossare. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato per volontà del giovane principe ereditario Mohammed bin Salman, sovrano “illuminato”, promotore di un programma di riforme sociali ed economiche (c.d. Vision 2030), alcune delle quali riguardano specificamente il sesso femminile: dallo scorso giugno, per esempio, le donne possono guidare l’automobile (benché non possano decidere autonomamente di acquistarne una); dal 6 gennaio è stata inoltre sancita la fine della pratica dei divorzi segreti, in base alla quale un uomo poteva ottenere una sentenza di divorzio all’insaputa della moglie: adesso i Tribunali sono obbligati ad avvisare dell’intervenuto divorzio tramite sms, anche se le donne non hanno comunque il diritto di intervenire davanti al giudice.
Detto questo, segregare le donne in spazi delimitati, impedendo loro di scegliere dove sedersi, è una discriminazione e non mi piace sentir obiettare che è “soltanto” una partita di calcio. Tanto più che in quello stadio hanno giocato due squadre italiane. Il fatto che certe macroscopiche forme di discriminazione e di violenza siano state debellate non deve indurci a considerare con indulgenza quelle che, pur considerate “minori”, non cessano per questo di essere tali. La discriminazione è l’anticamera della violenza, dunque nessuna discriminazione può essere accettata: altrimenti si diventa complici di chi la compie. Il rispetto di una cultura diversa dalla nostra non implica la supina accettazione di condizioni che rischiano di far crollare in un lampo lunghe e faticosissime conquiste di libertà raggiunte dalle donne del nostro Paese, che ancora oggi lottano per una parità di diritti, doveri e opportunità davvero sostanziale e non solo teorica.
Per tutte queste ragioni, accettare di giocare la finale di una competizione italiana in uno stadio in cui vigono simili regole è stato un errore da non ripetere.

Giulia Bongiorno

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