Pubblicato su Oggi n.36 del 12 settembre 2019.

Ho letto di uno studio che ha rilevato la diffusione dell’odio per le donne attraverso i social network. Può spiegarmi più precisamente di che cosa si tratta?
Ettore

Lo studio a cui fa riferimento è la quarta edizione della cosiddetta Mappa dell’Intolleranza, legata a un progetto ideato da Vox – Osservatorio Italiano sui diritti, in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano.
La Mappa si basa sull’estrazione e geolocalizzazione di tweet che contengono determinate parole considerate “sensibili” (ovvero espressive di intolleranza) e identifica le zone del nostro Paese dove è maggiormente diffusa l’ostilità verso i seguenti gruppi di persone: donne, omosessuali, migranti, diversamente abili, ebrei e musulmani.

Più esattamente, grazie a un software progettato allo scopo, sono stati estratti in totale 215.377 tweet, rilevati tra marzo e maggio 2019. Tra questi, 151.783 sono stati quelli negativi, “dell’odio”. I tweet sono stati anche geolocalizzati, dando come risultato delle “cartine termografiche” dell’Italia da leggere così: quanto più caldo, cioè vicino al rosso, è il colore tanto più concentrato è il numero di tweet intolleranti in quella zona rispetto a un particolare gruppo.

L’incitamento all’odio (hate speech) si rivolge dunque anche contro le donne, nei confronti delle quali è stato registrato un aumento di tweet negativi (più 1,7 per cento) rispetto al 2018: 39.876 sono risultati i tweet di violenza verbale (il 27 per cento sul totale dei tweet negativi rilevati). Sotto il profilo della distribuzione geografica, la concentrazione maggiore di tweet con contenuti sessisti è stata riscontrata nelle città di Milano, Napoli, Firenze e Bologna. Il risultato dell’indagine sulla misoginia dimostra, tra l’altro, che a scatenare un linguaggio ostile e intollerante verso le donne può essere, a seconda dei casi, il modo di vestire o alcuni comportamenti che una certa mentalità machista ritiene “provocatori” o “istigatori”.
La mappa è stata realizzata impiegando i termini e le offese più ricorrenti sui social, quasi tutti insulti che attaccano il corpo delle donne, disprezzandolo, ridicolizzandolo e umiliandolo. È preoccupante, perché il passo dalle aggressioni verbali a quelle fisiche è spesso breve e perché – a quanto emerge dallo studio – oggi chi odia tenderebbe a non rimanere anonimo, e anzi a farsi riconoscere; non si sentirebbe solo ma addirittura forte, anche grazie all’effetto moltiplicatore assicurato dai clic dei social network.

È noto che – purtroppo o per fortuna – l’uso dei social, e più in generale del web, è aumentato negli anni ed è sempre più popolare tra i giovani. Ecco alcuni dei dati più recenti del Censis (Quindicesimo Rapporto sulla comunicazione, 11 ottobre 2018): sul totale della popolazione italiana, oltre il 70 per cento dei giovani in età compresa tra i 14 e i 29 sono iscritti a Facebook e usano YouTube; su Twitter, invece, ce ne sono circa un quarto.

I ragazzi e le ragazze di oggi sono “nati nella tecnologia”, sarebbe dunque irrealistico (oltre che sbagliato) augurarsi che la rete venga usata meno; quello che si può e si deve fare è favorirne un uso competente e responsabile, spiegando che nessuno può permettersi di denigrare gli altri e che la libertà di espressione non deve mai degenerare in insulti e offese verso persone considerate diverse e inferiori, come appunto le donne.
Come dico sempre, famiglia e scuola hanno un ruolo fondamentale, perché la battaglia contro le discriminazioni di genere dev’essere condotta innanzitutto sul piano culturale: il rispetto della dignità della donna e il principio della parità tra i sessi devono essere irrinunciabili pilastri dell’educazione.
Solo così sarà davvero possibile superare gli stereotipi ancora oggi diffusi sui ruoli di uomini e donne, sradicando un’idea di inferiorità della donna che – come ci dimostra lo studio di cui sopra – si riflette pericolosamente anche nel linguaggio che i nativi digitali usano online. Un linguaggio che purtroppo può generare comportamenti ancora più gravi e violenti.

Giulia Bongiorno

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