
Pubblicato su Oggi n. 16 del 23 aprile 2020.
Sono una delle donne a cui rivolgeva un pensiero nella sua ultima rubrica, quelle che in tempi di coronavirus si sono ritrovate a svolgere da casa il lavoro d’ufficio ma anche a occuparsi della famiglia, spesso senza collaborazione da parte di mariti e compagni e naturalmente senza alcun tipo di aiuto esterno. Anche mio marito fa lo smart working, e in più avrebbe maggiore flessibilità rispetto a me, ma anche quando non lavora è come se non ci fosse. Se glielo faccio notare risponde che io sono molto più brava di lui a riordinare, rifare i letti, stendere la biancheria ecc. Oppure “si offende”. Oltre che preoccupata per il futuro, sono amareggiata nel vederlo così insensibile e apatico. Va a finire che per amore dei bambini faccio finta che vada tutto bene, ma mi sento a pezzi.
Gemma
Ho ricevuto tantissime lettere come la sua, donne che si sentono vacillare sotto il peso dell’accudimento dei figli, della cura dei familiari anziani e della gestione della casa, aggravato dal nervosismo, dalla preoccupazione e dal fatto che – in questo momento di emergenza – anche operazioni teoricamente banali come fare la spesa sono diventate complicate. Molte di queste donne vivono insieme a mariti e compagni che, una volta assolti gli impegni di lavoro, si ritengono liberi da qualsiasi ulteriore dovere, come se tutto il resto non li riguardasse. Risulta quindi evidente che quello che finora ha tenuto lontani tanti uomini da lavatrice e aspirapolvere non era un lavoro troppo impegnativo (l’alibi preferito) ma un’atavica resistenza culturale che nemmeno il virus è riuscito a scalfire: la convinzione che casa e famiglia sono responsabilità esclusiva della donna. Sono situazioni pesanti, in cui vengono a galla – in forma esasperata – dinamiche di coppia poco sane: tra gli uomini che non erano abituati a collaborare (anche solo perché c’era un aiuto domestico esterno) ce ne sono sicuramente tanti che hanno capito la situazione e hanno cercato di adeguarsi; se non si potevano pretendere trasformazioni radicali e improvvise, era legittimo attendersi almeno la buona volontà. Purtroppo, pare che spesso manchi anche quella.
Lo si deduce da un’originale ricerca diffusa qualche settimana fa, condotta da Valore D – un’associazione di 200 aziende che contano più di due milioni di dipendenti e che ha coinvolto 1300 lavoratrici e lavoratori, dipendenti e non di multinazionali e PMI. Tra gli altri dati è emerso che – in questi tempi di coronavirus, in cui si è reso necessario instaurare modalità di lavoro agile – una donna su tre lavora più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere un equilibrio tra lavoro e vita domestica. Le donne si sono insomma ritrovate più sole che mai a cercare di conciliare una molteplicità di compiti essenziali per la vita quotidiana. Peraltro, venuta meno ogni separazione tra vita privata e vita professionale, le più scrupolose (spesso molto ansiose) tendono a sedersi alla scrivania appena si liberano dalle incombenze domestiche: come sa bene chi abitualmente lavora da casa, diventa allora difficile concedersi il necessario riposo.
In questa fase, dove non esistono più alibi al disinteresse e alla pigrizia, le donne dovrebbero pretendere la collaborazione di tutti coloro che vivono in casa: trovo giusto per esempio affidare piccoli compiti anche ai figli, perché capiscano che la famiglia è una squadra, in cui ognuno fa la sua parte. Non si vede dunque perché mariti e compagni dovrebbero essere esonerati: anzi, a me piace pensare che la consapevolezza di quanto lavoro casalingo (non pagato) portino avanti le donne li renderà tutti, a poco a poco, più grati e disponibili.
Giulia Bongiorno