
Pubblicato su Oggi n.19 del 16 maggio 2019.
L’anno prossimo mia figlia si iscriverà all’Università; lei è piena di entusiasmo mentre io, oltre a essere orgogliosa per l’impegno che da sempre mette nello studio, sono un po’ preoccupata. Nella mia vita professionale so di essere stata penalizzata – in termini di occasioni e opportunità – per il fatto di essere moglie e madre, mentre lo stato civile dei colleghi uomini e la presenza di eventuali figli sono sempre stati del tutto ininfluenti. Ho sentito parlare di uno studio sulla condizione occupazionale dei laureati non proprio positivo per le donne. Di cosa si tratta?
Giorgia
Purtroppo, le statistiche ci dicono che il suo non è un caso isolato: succede spesso che, anche a parità di meriti, gli uomini vengano preferiti alle donne – specie se oltre che donne sono pure mamme!
Lo studio a cui lei si riferisce è un’indagine giunta alla XX edizione e condotta da AlmaLaurea, un consorzio interuniversitario fondato nel 1994 al quale aderiscono, a oggi, 75 atenei. In particolare, il Rapporto 2018 sulla Condizione occupazionale ha analizzato oltre 630 mila laureati di primo e secondo livello degli anni 2016, 2014 e 2012, contattati rispettivamente a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo. I laureati coinvolti nell’indagine costituiscono circa il 90 per cento dei laureati degli atenei italiani.
Nell’indagine sono riportate analisi sulle differenze di genere relativamente al tasso di occupazione, alla tipologia di attività lavorativa e alla retribuzione. Rimandando alla fonte per ogni ulteriore dettaglio, mi limito a richiamare alcune parti del Rapporto che ancora una volta inducono a riflettere sulle discriminazioni di cui le donne sono vittime.
A distanza di un anno come di cinque anni dalla laurea, si registra per tutti i laureati (primo e secondo livello) un differenziale occupazionale a favore della componente maschile. Ad esempio, tra i laureati di secondo livello (magistrali biennali), dopo un anno dalla laurea lavora il 79,1 per cento degli uomini contro il 69,9 per cento delle donne; dopo cinque anni, il 91 per cento degli uomini risulta occupato mentre la percentuale delle donne è pari all’84,6.
Dal punto di vista della tipologia dell’attività, si evince che il lavoro autonomo riguarda soprattutto gli uomini; che – di regola – sono loro a essere coinvolti in misura maggiore quando si tratta di contratti di lavoro a tempo indeterminato e che caratteristica peculiare delle donne risulta essere, invece, il lavoro non standard (fatto in sostanza di contratti a termine e/o part time). In particolare, è il contratto a tempo determinato a riguardare più le donne che gli uomini.
Infine, anche sotto il profilo retributivo le donne risultano indietro: a un anno dalla laurea, tra i laureati di primo livello gli uomini percepiscono una retribuzione di quasi il 21,9 per cento più elevata rispetto alle donne; a cinque anni dal titolo la differenza si attenua, ma di poco: gli uomini guadagnano il 19,8 per cento in più. Tra i laureati di secondo livello (magistrali biennali), a un anno dalla laurea gli uomini guadagnano 1302 euro contro i 1027 delle donne (il 26,8 per cento in più); a cinque anni, il 27,7 per cento in più.
In effetti, i dati non sono incoraggianti. Perché migliorino – in un futuro spero prossimo – è necessario, tra l’altro, che i datori di lavoro imparino a riconoscere il valore delle donne e capiscano che possono rendere quanto e più degli uomini: bisogna dar loro fiducia e occasioni, senza pregiudizi.
Giulia Bongiorno