
Pubblicato su Oggi n.11 del 21 marzo 2019.
Ha suscitato molto scalpore una recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna sul caso di un uomo che nel corso di una breve relazione ha ucciso una donna, raccontando di aver perso la testa perché lei voleva lasciarlo, nonostante le avesse detto che doveva essere sua e di nessun altro. Quindi le ha messo le mani al collo e ha stretto fino a ucciderla.
Secondo quanto emerso nei due gradi di giudizio, il condannato compie questo gesto nell’ottobre del 2016: da qualche giorno si mostrava geloso per alcuni messaggi che altri uomini avevano inviato sul cellulare della fidanzata – da lui considerata la sua donna – e che avrebbero determinato anche litigi tra i due. L’uomo le aveva anche confidato che il fallimento del suo matrimonio e i tradimenti della moglie lo avevano reso insicuro.
In primo grado c’è stata una condanna a trent’anni di reclusione, derivante dalla scelta del rito abbreviato; in appello gli anni di carcere sono diventati sedici: oltre alla diminuzione per la scelta del rito abbreviato, l’imputato è stato riconosciuto meritevole della concessione delle attenuanti generiche.
A fronte di una serie di critiche, il Presidente della Corte d’Appello di Bologna ha affidato a una nota un chiarimento sulla decisione assunta: la gelosia dell’uomo non è stata considerata motivo di attenuazione del trattamento, anzi, al contrario, motivo di aggravamento, in quanto integrante l’aggravante dell’avere agito per motivi abietti-futili. Ed è stato altresì precisato che la misura della responsabilità (sotto il profilo del dolo) era comunque condizionata dalle infelici esperienze di vita affettiva dell’imputato, che in passato avevano comportato anche la necessità di cure psichiatriche e avevano amplificato il suo timore di abbandono. Inoltre, la concessione delle attenuanti si è basata anche sulla “immediata e spontanea confessione” e sul fatto che l’imputato “seppur in forma incompleta, ha tentato di iniziare a risarcire la figlia della vittima”.
Le sentenze si rispettano sempre, piacciano o meno, ma la lettura dei principi affermati in questa sentenza suscita alcune riflessioni.
I giudici hanno il delicato compito di esaminare tutti gli aspetti che portano a un’azione criminale e quindi devono considerare vari elementi ai fini della valutazione della gravità di un reato.
Resta il fatto che, sulla base della lettura della motivazione, emerge il riferimento a una soverchiante tempesta emotiva e passionale come condizione che ha influito sulla riduzione della pena: è dunque naturale che a molti sia tornata in mente l’idea di fondo del delitto d’onore, retaggio di una cultura in cui la donna era un bene appartenente all’uomo. Per chiarezza va infatti ribadito che, se nella prima parte della stessa decisione si legge che la gelosia è stata ritenuta un’aggravante, è altrettanto vero che poco dopo quello stesso sentimento (di gelosia) è stato preso in considerazione in quanto “determinò” nell’uomo, a causa delle sue infelici esperienze di vita, una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” idonea a incidere sulla misura della responsabilità penale, e quindi a ridurre la pena.
Va detto che lo sconto sanzionatorio è legato a diversi fattori, prima di tutto al rito scelto dall’imputato, e che i giudici si sono mossi nel solco delle legge, applicando cioè la riduzione automatica a esso conseguente.
Rito abbreviato vuol dire infatti sconto premiale: l’imputato acconsente a una più rapida definizione del giudizio, di regola, allo stato degli atti e senza che si proceda al dibattimento; lo Stato, per premiarlo, gli riduce la pena. La normativa che attualmente contempla questo rito legittima, purtroppo, uno scambio indecente: non si può sacrificare la congruità della pena per delitti gravissimi soltanto allo scopo di accelerare i processi. Mi auguro perciò che sia adottata quanto prima una legge che escluda il rito abbreviato per reati puniti con l’ergastolo.