Pubblicato su Oggi del 04.04.17

Dall’inizio dell’anno, sono oltre 19 le donne uccise per mano di un uomo: femminicidi che si sono susseguiti rapidamente, anche nel giro di pochissimi giorni.
Una straordinaria e improvvisa escalation? No. Piuttosto, una tragica cronaca che va avanti da tempo, alla quale negli ultimi anni viene dato più risalto dai media. Proprio in tv mi è capitato di ascoltare dichiarazioni sorprendenti; in un dibattito in cui si parlava di donne perseguitate dagli ex, ho sentito qualcuno affermare che queste donne se la vanno quasi a cercare: sarebbero loro a dover stare lontane dai violenti per sottrarsi al rischio di nuove aggressioni, e non i violenti a dover essere sorvegliati adeguatamente! Una mentalità così retrograda e maschilista trova senza dubbio perfettamente accettabile l’idea che la donna sia un accessorio dell’uomo, un oggetto di cui disporre a piacimento. L’ho detto e scritto migliaia di volte, ma ancora insisto: alla base delle violenze e del femminicidio c’è proprio questa mentalità. Purtroppo, nonostante si versino fiumi di inchiostro, mi sembra che solo in pochi riescano a inquadrare il fenomeno e, nonostante tanti bei discorsi (in genere in occasione dei funerali delle vittime), non vedo una seria volontà di risolvere il problema alla radice.

Il primo passo dev’essere valorizzare le donne, rispettarle e aiutarle a rendersi indipendenti. Penso per esempio alle casalinghe, che lavorano come chi ha un’occupazione fuori casa (se non di più) e non percepiscono alcun reddito: quando subiscono violenza, queste donne rimangono letteralmente prigioniere dei loro mariti/compagni. Ecco perché sostengo la necessità di retribuire il lavoro domestico, attraverso quello che chiamo – per l’appunto – “stipendio antiviolenza”. Ma oltre alla prevenzione sono necessarie sanzioni adeguate e tempi processuali celeri. Non è più accettabile che le vittime di violenza debbano vivere nel terrore di quello che potrebbero ancora subire dai loro aggressori (quasi sempre ex mariti/compagni) una volta tornati in libertà dopo avere scontato pene spesso irrisorie. Servono provvedimenti che assicurino una tutela effettiva e, in questa situazione di inadeguatezza delle pene, c’è chi ha provato a dare un segnale. Mi riferisco alla Procura di Tivoli, che ha chiesto e ottenuto l’adozione della misura di prevenzione del divieto di soggiorno nei confronti di un marito condannato per maltrattamenti e prossimo alla scarcerazione. È una misura prevista dal Codice antimafia per le persone pericolose, per la prima volta applicata a protezione di una donna vittima di violenza domestica. In base a questo provvedimento, il marito ha il divieto di soggiornare nei Comuni frequentati dalla donna. Il soggetto è stato infatti ritenuto socialmente pericoloso, anche in considerazione della condotta tenuta nel periodo di reclusione e della mancata sottoposizione ai programmi di recupero.
Forse questa misura, in presenza dei presupposti che la rendono applicabile, potrebbe funzionare come apripista per quelle situazioni in cui la violenza non si argina neppure dopo la pena carceraria. Insomma, nel caso di specie è stata realizzata una concreta possibilità di controllo dell’uomo a tutela della donna: una decisione perfettamente in linea con le richieste della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che ha di recente condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere le vittime di violenza domestica.

Giulia Bongiorno

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